fighezza seriale

Posted on febbraio 8, 2011 
Filed Under sens_in_azione

entro nel Lingotto e mi ritrovo col naso all’insù a rimirare la rampa elicoidale che porta alla pista sul tetto, una ventina e passa di metri più in alto. Una vertigine all’incontrario che voglio fermare con una foto, per cui prendo la macchina la levo dalla custodia, tolgo il tappo dall’obiettivo, l’accendo, setto il programma, bilancio il bianco, zummo (che schifo, scritto così) e faccio un po’ discatti fra 16:9 e 4:3.
Poi prendo anche l’iPod Touch di Jane e scatto una foto con Hipstamatic. Stop.
A casa scarico le foto, non c’è gara: la foto sfuocata, verdastra, a bassa risoluzione e piena di rumore mi piace di più della serie di immagini da 10 megapixel scattate con obiettivo Leica dalla Lumix.
Perché? O meglio, davvero?
L’estetica fotografica, televisiva e cinematografica dominante degli ultimi anni si è “lomo-izzata”, spesso “low-fi-zzata” e sporcata, ma in generale alterata cromaticamente. Se guardi una qualsiasi produzione americana su sky, film o serial che sia, avrà tutti i mezzitoni tendenti al verdastro o a tonalità fredde con contrasti accentuati, ombre scurissime e luci abbaglianti, lontano anni luce dalla fedele riproduzione del reale.
Ecco. Quale reale?
A me piace di più questa rappresentazione e non devo essere il solo se qualsiasi foto del cazzo scattata con un’applicazione che costa meno di un caffè da un possessore di iPhone fa scrivere commenti entusiasti dagli amici di faccialibro™ o riempie le pagine di periodici di moda o quelle della bibbia degli onanisti geek come la versione italiana di Wired.
Non c’è verso, le prime foto che ho fatto sono dettagliatissime, ma non reggono il confronto, sembrano piatte, inconsistenti, mentre nell’altra l’architettura sembra esprimere qualcosa in più che però, a guardarla da sola non riesco a cogliere, un non so che che sfugge continuamente alle ipotesi che provo a formulare tipo il paradosso della tartaruga con la lepre.
Mi piace perché mi deve piacere, sono allenato a quest’estetica, l’ho digerita insieme a milioni e milioni di altre persone, me ne nutro ogni giorno, che scemo che sono: piace a me come al piccolo imprenditore di Cesano Maderno o al graffitista di Shangai, nella stessa maniera, perché è ad alta digeribilità, senza sapore nella sua ridondante piattezza, tipo fast food.
Arrivati.
Fast photo.
Niente di più, niente di meno.
Basso costo, tante calorie, sapori uniformi in ogni parte del globo: ti piacerà dovunque e comunque.
Al che ho fatto la riprova: sul treno ho fotografato la testa che spuntava dalla sommità del sedile del passeggero di fronte a me, una roba che nella scala dell’attrazione sta fra la perdita di un tubo e l’epistassi notturna.
Regge, anche lei.
È questa qua.

E allora?
E allora niente, un pugno di mosche da fotografare.
Mi dico che le mie son seghe mentali, ma mi convinco che un’alterazione della realtà così è talmente seriale e prevedibile che puzza intollerabilmente di conformismo.
Solo più verde e figo dei precedenti.

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